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sopravvissuto da un mondo primitivo la cui natura ci si rivelava in modo sempre più minaccioso.
Alla fine, comunque, raccogliemmo il coraggio e ci arrampicammo sui detriti verso l'apertura che si
spalancava davanti a noi. All'interno il pavimento era fatto di grandi blocchi d'ardesia e costituiva
l'estremità di un lungo, alto corridoio dalle pareti scolpite.
Osservando i numerosi archi che conducevano in altri locali e rendendoci conto della vastità del-
la rete di appartamenti interni, decidemmo che era venuto il momento di seminare i nostri pezzettini
di carta. Fino ad allora le bussole e lo spettacolo delle montagne, visibili fra le torri alle nostre spal-
le, erano bastati a non farci perdere l'orientamento; ma d'ora in poi avremmo avuto bisogno di un
aiuto supplementare. Tagliammo la carta in piccoli pezzetti e li sistemammo in un sacchetto che a-
vrebbe portato Danforth; quindi ci preparammo a usarli con parsimonia, ma in modo da non mettere
a repentaglio la nostra sicurezza. Questo metodo ci avrebbe permesso di non perderci, perché all'in-
terno dell'antichissimo edificio non soffiavano forti correnti d'aria. Se a un certo punto si fosse alza-
to il vento, o se avessimo finito la carta, ci saremmo rivolti al più sicuro anche se più lento e noioso
metodo di scalpellare la pietra per ricavarne sassolini.
Quanto fosse grande la zona che si apriva alle nostre esplorazioni, non era facile dire: la vicinan-
za degli edifici collegati fra loro faceva pensare che avremmo potuto trasferirci dall'uno all'altro
grazie ai ponti che correvano sotto il ghiaccio, salvo nei punti dove si era verificato un crollo o un
blocco dovuto all'accumulo di materiale geologico. Gli immensi palazzi, in genere, non sembravano
ostruiti dalla glaciazione; in quasi tutte le zone dove il ghiaccio era trasparente avevamo visto fine-
stre sommerse e protette dalle imposte chiuse, come se la città fosse stata lasciata in quello stato u-
niforme fino a quando la lastra del ghiacciaio ne aveva cristallizzato la parte inferiore per i secoli
futuri. Nel complesso si aveva l'impressione che fosse stata deliberatamente chiusa e abbandonata
in un'epoca remota, non distrutta da un'improvvisa calamità o da graduale decadenza. L'arrivo del
ghiaccio era stato previsto? La popolazione sconosciuta si era trasferita in massa verso luoghi più
favorevoli? Le condizioni fisiografiche che avevano determinato la formazione del ghiacciaio in
quel punto avrebbero richiesto un'indagine che per il momento bisognava rimandare. Con ogni evi-
denza non si era trattato di un'azione distruttiva: forse ne era responsabile l'accumulo delle nevi, o
un'inondazione del fiume, o il crollo di un antico bacino di ghiacci nella catena di montagne; una di
queste ragioni aveva contribuito a determinare le condizioni che osservavamo in quel momento. In
un posto del genere l'immaginazione poteva concepire qualsiasi cosa.
VI
Fornire un resoconto dettagliato dei nostri vagabondaggi in quel dedalo cavernoso di edifici pri-
mitivi e morti da millenni non sarebbe pratico. Per la prima volta dopo infiniti secoli il suono di
piedi umani risuonava in quel mostruoso archivio di segreti del passato, perché di questo si trattava:
buona parte delle orribili rivelazioni in cui stavamo per imbatterci sarebbe scaturita da un semplice
esame delle onnipresenti sculture murali. Le fotografie che abbiamo scattato col flash confermeran-
no la verità di ciò che stiamo per dire, ma è un peccato che non avessimo con noi una maggior
quantità di pellicola. Una volta finito il materiale fotografico, abbiamo tentato di disegnare gli og-
getti più notevoli che si trovavano sul nostro cammino.
L'edificio in cui eravamo entrati era complesso e di grandi dimensioni, e ci diede un'impressio-
nante dimostrazione di ciò di cui erano capaci gli architetti di quelle ignote ère geologiche. Le pare-
ti interne erano più sottili delle mura, ma ai piani inferiori erano conservate in modo eccellente.
L'intera struttura era caratterizzata da una complessità labirintica e da misteriosi dislivelli nel pavi-
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